mercoledì 23 ottobre 2013

Ipazia

Di tutti i cambiamenti di lingua che deve affrontare il viaggiatore in terre lontane, nessuno uguaglia quello che lo attende nella città di Ipazia, perché non riguarda le parole ma le cose. Entrai a Ipazia un mattino, un giardino di magnolie si specchiava su lagune azzurre, io andavo tra le siepi sicuro di scoprire belle e giovani dame fare il bagno: ma in fondo all’acqua i granchi mordevano gli occhi delle suicide con la pietra legata al collo e i capelli verdi d’alghe.
Mi sentii defraudato e volli chiedere giustizia al sultano. Salii le scale di porfido del palazzo dalle cupole più alte, attraversai sei cortili di maiolica con zampilli. La sala nel mezzo era sbarrata da inferriate: i forzati con nere catene al piede issavano rocce di basalto da una cava che s’apre sottoterra.
Non mi restava che interrogare i filosofi. Entrai nella grande biblioteca, mi persi tra scaffali che crollavano sotto le rilegature in pergamena, seguii l’ordine alfabetico d’alfabeti scomparsi, su e giù per corridoi, scalette e ponti. Nel più remoto gabinetto dei papiri, in una nuvola di fumo, mi apparvero gli occhi inebetiti d’un adolescente sdraiato su una stuoia, che non staccava le labbra da una pipa d’oppio.
- Dov’è il sapiente? - Il fumatore indicò fuori dalla finestra. Era un giardino con giochi infantili: i birilli, l’altalena, la trottola. Il filosofo sedeva sul prato. Disse: - I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere -. Capii che dovevo liberarmi dalle immagini che fin qui m’avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito ad intendere il linguaggio di Ipazia.
Ora basta che senta nitrire i cavalli e schiocchiate le fruste e già mi prende una trepidazione amorosa: a Ipazia devi entrare nelle scuderie e nei maneggi per vedere le belle donne che montano in sella con le cosce nude e i gambali sui polpacci, e appena s’avvicina un giovane straniero lo rovesciano su mucchi di fieno o di segatura e lo premono con i saldi capezzoli.
E quando il mio animo non chiede altro alimento e stimolo che la musica, so che va cercata nei cimiteri: i suonatori si nascondono nelle tombe; da una fossa all’altra si rispondo trilli di flauti, accordi d’arpe.
Certo anche a Ipazia verrà il giorno in cui il solo mio desiderio sarà partire. So che non dovrò scender al porto, ma salire sul pinnacolo più alto della rocca ed aspettare che una nave passi lassù. Ma passerà mai? Non c’è linguaggio senza inganno.


da Italo Calvino, Le città invisibili

martedì 30 aprile 2013

persian surgery dervishes

Ascoltando musica esploro nuovi orizzonti. Mi lascio trasportare dalle note che in successione si alternano rasentando la follia. Non ci sono parole dette, scritte, ripetute. Pura strumentalità. È così anche la mia anima in questo momento. Sento il bisogno di esprimermi con i suoni, senza parole che implichino un significato che possa essere configurato in forme conosciute. Niente riferimenti a soggetti realizzati, realizzabili o anche solo concepibili. No. Ho bisogno di altro. Voglio scatenare nuove forme e nuovi contenuti dentro di me. Voglio avere il coraggio di affrontare un nuovo cosmo, di esplorare un nuovo pianeta, conoscerne gli astri, le lune, le cavità più profonde. Anche quelle più difficili, più ostiche e oscure. Voglio scalarne le vette più alte, sentire le vertigine invadere il mio corpo. Respirare l'aria di questo nuovo posto. Spaventarmi per il mancato controllo, liberare l'ignoranza per poterla plasmare e colmare e ancora imprigionarla dentro di me, conservandola con gelosia per il prossimo viaggio.

lunedì 29 aprile 2013

Passa la stagione della pioggia e ritorna. Passano gli uragani e ritornano. Passa la notte e ritorna. L'eterno ritorno delle cose. Noi ci spegniamo a poco a poco, frammenti che si dissolvono nel corso dei giorni. L'unica mia via di scampo è scrivere, e scrivere tutto. Scrivere delle viscere e della solitudine. Scrivere come se l'anima si assentasse in un tentativo di fuga senza ritorno. Come se fosse l'unica cosa realizzabile, l'espiazione della condanna. Scrivere come se le ossa si stessero riducendo in polvere; piccole particelle che nel cambiare stato svanissero. È come se l'unico modo di fermare il tempo, l'unico modo ammissibile di limitare questo ridursi in polvere, fosse la scrittura. L'orologio che segna i minuti e tu consapevole che, nel preciso istante in cui la mano si fermerà, tutta la sua carne cadrà per terra, ineluttabilmente.
Scrivere tutto: il trascorrere delle ore e il respiro. Scrivere i lessemi e i morfemi, iperboli e parabole, e i cateti e le ipotenuse (la somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa, c.v.d.). Scrivere il nonsenso dei sensi apparenti. Il buio che non si vede. Il silenzio in mezzo alla confusione. Il riso come reazione alla paura, e la paura come reazione all'incapacità di ridere. Scrivere che ti alzi ogni giorno sapendo che dentro ti stanno morendo cellule ed è come una morte in differita; e devi allontanarti e fare qualcosa, o fare come se niente fosse e aspettare. Scrivere come se fosse l'unica conferma che sei stato qui.

da La viaggiatrice di Karla Suarez

domenica 13 gennaio 2013

ovunque non basta

 
Guardo un posto e lo vivo. Poi mi giro e vedo nitidamente come quello stesso luogo venga vissuto da una persona esterna, sconosciuta.
Il luogo che per me è prigione, devianza dell'essere, costrizione socioculturale, rinnegazione del sé per uno sconosciuto può significare chiarezza, respiro, calma, fuga, tranquillità, sfogo, martirio.
E io non lo percepisco perché sono troppo presa dalla disillusione, dagli automatismi, dai miei sentimenti, dalla voglia di evadere, dal pensiero di leggere, dall'anarchia di poter scegliere.
Poi apro gli occhi e mi rendo conto che quel luogo è un rifugio per molti. Un rifugio per vite forse monotone, forse difficili. Persone con un lavoro che disprezzano. Una lavoro che non rappresenta il loro essere, da cui non riescono a trarre soddisfazioni e gratificazioni. Persone che non hanno un lavoro da cui distaccarsi. Un lavoro che determini cosa sono e cosa non sono. Cosa vogliono essere o cosa no. Per definirsi c'è davvero bisogno di sapere cosa non siamo? Ma di chi stiamo parlando. Di me o di loro? Forse ci sentiamo allo stesso modo. E se io mi rifugiassi nei loro uffici o sulle loro scrivanie potrei forse sentirmi meglio?
A volte basterebbe essere ovunque ma non in quel luogo. A volte invece no. Ovunque non basta.